Conche Bianche

Un fiore tra quattro mura: intervista a Conche Bianche

di Vittoria Brandoni

Da qualche parte in Lombardia, anni luce distante dalla Milano dei festini fuorisede e dei ristoranti di cucina molecolare decostruita, c’è una cascina immersa nel verde. Qui lavora Luca Giuseppe D’Aloia, che sotto un tiepido e luminosissimo sole primaverile si prende un momento per rispondere alle mie domande, penna su Moleskine. Il suo primo album da solista è appena uscito, e potrebbe sembrare un detour improvviso da quello che negli ultimi anni ha portato sui palchi di tutta Italia assieme alla sua band –le giovanissime promesse dello screamo Radura. In realtà Conche Bianche, come omonimo album e come alias artistico, non è che la stessa anima vista sotto una luce nuova, che sia quella della cameretta in cui Luca ha composto il disco, o quella che riflette sulle pagine da lui riempite rispondendo a TBA ora che l’album è finalmente fuori da quella stanza, finalmente di tutti.

Negli ultimi anni ti abbiamo visto indossare molteplici vesti: il tuo ruolo come artista appare un processo di continua metamorfosi. Di te sappiamo che sei un musicista e un animale sociale: dai ruoli intrapresi nelle band alle collaborazioni con altri creativi del DIY italiano, alla voglia di partecipare e militare attivamente nella tua scena. In Conche Bianche però, tolta ogni sovrastruttura, ti troviamo da solo con una chitarra. Da dove nasce la voglia di intraprendere questo percorso?

Conche Bianche è per me il filo che lega tutte le vesti che ho indossato e ugualmente il desiderio di scucirle, di spogliarmi, di cercare una sorta di nudità artistica. Credo che il disco rifletta questo desiderio, ed è per questo che il contatto intimo che si avverte ascoltandolo non è mai mitigato o stemperato; la produzione che ne ho fatto è essenziale ed è come un vestito trasparente. Tra il sangue della chitarra Radura e le prime note sulla chitarra classica di mia madre mi vedete così, come sono sempre stato, chitarra in braccio. 

Tra le sette canzoni, qual è stata la prima che ti ha fatto fermare un attimo a pensare “okay, forse sta per nascere qualcosa di più, forse voglio fare un disco”? 

Corvo, che è anche la più lontana nel tempo. Era il 2016 quando l’ho scritta, credo; apriva un disco del quale ho dimenticato e perso quasi tutto. Il tempo è ambivalente. Da un lato fa paura, perché sbiadisce e cancella, dall’altro ciò che gli resiste prende a essere luminoso. Corvo ha la luce di qualcosa che rimane, come una delicatissima preghiera o una candela che si cerca di riparare dal vento con le mani. Le altre canzoni del disco condividono un destino simile: è un disco di cose levigate, ridotte al minimo e per questo esposte, nude.

Come si differenzia, per te, l’esperienza solista dal lavoro all’interno di una band?

Esser solo nel processo creativo è difficile, perché rimani in balia delle tue fatiche. Quando si è in gruppo c’è sempre qualcuno che spinge, che si mette gli altri sulle spalle o che ravviva l’entusiasmo – Mi è appena salita una coccinella sul braccio – Posso seguire lei: esser soli è anche una fortuna, perché si può andare a fondo senza mai dover trovare un compromesso creativo, si è totalmente liberi di assecondarsi. 

C’è poi da dire una cosa: in realtà da solo solo non avrei combinato nulla, il disco ha preso forma accanto a un piccolo numero di persone che l’hanno accompagnato dall’inizio alla fine e modellato in tutte le sue sfaccettature: per lo sviluppo dell’immaginario grafico e fotografico devo ringraziare Alice e Veronica, per il sostegno tecnico Pioggiadanza. Più che importanti poi tutte quelle persone che hanno ascoltato in maniera più o meno naif, dandomi consigli e impressioni, e che mi sono state vicine nella giostra degli alti e bassi.

Il tuo debutto esce in primavera, a ridosso dei primi spiragli di luce dopo un interminabile periodo di incertezza e difficoltà. È stato intenzionale creare qualcosa che suonasse così sovversivamente carezzevole mentre il mondo lasciava poco spazio per il conforto?

Mi piace tantissimo quello che hai detto, e se suona così ne sono felice. L’immagine delle conche bianche nasce come immagine di serenità; non cerco altro se non una carezza, data o ricevuta. In primavera le prime foglie controluce mi ricordano cosa desidero e i fiori che presto sfioriscono mi restituiscono un senso di libertà, libertà di bruciare e scomparire. Vince chi non ha paura di scomparire.

Conche Bianche magnolia

Più volte hai raccontato le tue nuove canzoni come attimi fugaci, che “non hanno la pretesa di restare”. Hai già gli occhi rivolti su altri sentieri? A cosa stai lavorando al momento e cosa ti interesserebbe esplorare nell’immediato futuro?

Mi sono reso conto di scrivere seguendo una continuità d’immagini, come se stessi parlando sempre dello stesso mondo. Forse, se le mie parole definiscono il mio mondo, immerse nell’acqua buia del porto sepolto di cui parlava Ungaretti, ci sono solo un pugno di essenziali, che continuo e continuerò a usare. Forse, come il Marco Polo di Calvino ne Le città invisibili, racconto di mille città solo per parlare di Venezia, la città madre, e tutte le mie canzoni sono un tentativo di dare forma al mio personale paesaggio interiore.

Il disco si chiude sotto il segno di una stella d’amore, che è anche il titolo dell’ultima traccia. Il prossimo disco esplorerà il paesaggio scuro che si apre sotto il segno di una stella nera, senza luce. Lo sto già scrivendo, raccogliendo immagini e sensazioni da due anni. 

Nonostante il tuo suono in Conche Bianche sia ben diverso da quello che abbiamo conosciuto con i Radura, l’emotività alla radice non è stata affatto sacrificata. In che modo sono diversi i sentimenti che esplori suonando in acustico, componendo nella tua condizione più intima? 

Sono felice che tu abbia sentito questa cosa. La radice è la stessa, tant’è che alcune canzoni nate sull’acustica e pensate come Conche son poi diventate Radura, ad esempio Se Questa È La Nostra Festa. Solo in apparenza diversi, i due progetti sono per me un unico. La rabbia dei Radura e l’intimità di Conche si legano in una comune intima rabbia, e nella ricerca di un contatto. Forse è questo quello che mi ha spinto a suonare.

Avremo il piacere di ascoltare Conche Bianche live?

Sì! Il 30 aprile suonerò assieme al mio amico Stefanino aka Tana Combinaguai per un house show organizzato e ospitato da Shoeless Comets e Non Ti Seguo Records, in Piazzale Susa a Milano. Credo che gli house show siano la forma più naturale per portare questo disco dal vivo, che è raccolto e ha preso vita in una stanza. Un collettivo di Milano Sud mi ha poi proposto un altro house show, che però non verrà nemmeno pubblicizzato sui social e prenderà la forma di un accadimento segreto. L’idea gli è nata ascoltando il disco e vorremmo modellare lo spazio in accordo a quello che il disco evoca. È affascinante il prendere forma di un’idea, ed è bello come da una cosa ne nasca sempre un’altra.


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