
Moci: “Ho imparato a distinguere la rabbia dalla forza” – Intervista
di Alessandro Mainini
Di Moci ne hanno parlato come di un “cantautore romano all’incrocio tra Mac DeMarco e gli Slowdive”. Un ascolto al disco ci rivela che Moci, al secolo Marco Colagrande, è probabilmente come suonerebbe Mac DeMarco se fosse nato da qualche parte tra Trastevere e Testaccio. In Morbido, album d’esordio di Moci uscito il 27 ottobre per Sbaglio dischi/Carosello Records, c’è un po’ di tutto: dai pezzi pop rock a schitarrate improvvise da far invidia al catalogo Run for Cover circa 2015, da canzoni che sembrano uscite dalla scena indie rock britannica a ballad lo fi, senza però per questo perdere di omogeneità concettuale: il disco non suona come un insieme slegato di brani di diversi stili, semmai in ogni canzone traspare la visione che Moci ha di come si faccia la musica pop rock nel 2020.
Omogeneità che si ritrova anche nei testi del disco, scritti sotto evidente ispirazione e non puro riempitivo di una bella melodia. Marco ci ha condensato tre anni di esperienze di “un ventenne di Roma Nord”, probabilmente non tanto diverse da quelle di buona parte dei ragazzi della sua età, ma che raccontate in modo così diretto (spesso anche feroce e crudo) assumono tratti romantici, di quelli che ti fanno pensare “da questa roba dovrebbero farci un film, cazzo!”
Facciamoci guidare da Moci alla scoperta del suo album Morbido.
Ciao, Marco! Vorrei partire andando dritti al tuo album, e in particolare ai testi che sono popolati di immagini che rimandano al senso del disgusto: il marciapiede che è “un mix di merda e di cicche”, i “jeans sotto le coperte che fanno schifo”, la lebbra (che assicuri di non avere)… è una scelta consapevole o è una creazione involontaria della tua mente? Che sensazioni volevi rappresentare, o cosa pensi che la tua mente stesse cercando di comunicare?
La ricerca del grottesco e dell’esagerazione è da sempre nelle mie corde; sono cresciuto con la musica di Elio e le storie tese e i B-movies sulle reti private la domenica pomeriggio insieme al mio papà. Non voglio dirti che sia stato inconsapevole riempire le mie canzoni di queste immagini tra lo splatter e il ripugnante; sicuramente a un certo punto me ne sono reso conto, soprattutto perché c’era chi me lo faceva notare. Diciamo che fa parte un po’ di me, del mio umorismo, del mio modo di raccontare le cose e soprattutto delle migliaia di paranoie e immagini che mi assalgono, un po’ come tutti, durante la giornata. Non credo ci sia dietro chissà quale discorso inconscio o recondito, vedo semplicemente più bellezza in un fiore del loto in mezzo al fango piuttosto che nella rosa più bella del mondo in mezzo a un roseto.
Un altro tema ricorrente è quello della morte, letteralmente o metaforicamente: parli di morire in entrambi i primi brani, poi di buttarti dal balcone, di mesi che ti ammazzano e pure di morte di polipi. Credi sia un pensiero comune alle persone della tua generazione, che salta fuori di frequente magari anche solo per esorcizzarne la paura?
Pure di questa cosa della morte me ne sono accorto dopo. Più o meno quando ho finito di scrivere il disco un sacco di persone mi hanno fatto notare che quest’elemento spiccava tantissimo, soprattutto nei primi brani della tracklist, che sono gli ultimi che ho scritto. Devo ammettere che un pochino ci sono rimasto: sembrerà assurdo, ma non ci avevo fatto poi così tanto caso. Sicuramente come elemento la morte è associabile al discorso di prima sul grottesco, ma è anche un modo di esorcizzarla.
Per il poco che si può sapere e vivere sulla propria pelle, in ventitré anni ho avuto qualche esperienza indiretta con la morte e una molto più che diretta, tutte cose compresse in pochi anni e in un periodo di sviluppo della mia personalità; ne sono uscito cinico ma allo stesso tempo con la forte necessità di dare una forma e riporre in un cassetto questa serie di macabri fattacci. Innamorarsi e trovare un proprio posto nel mondo sento che mi abbia aiutato a trovare in tutta questa storia della morte una certa poesia; sparisce la paura di non esserci più e rimangono solo le paure concrete: quella del dolore, di affogare, di cadere di sotto, di fare il botto con la macchina e tante altre cose fantastiche che troverete in Morbido.
Stavi cercando di morire anche nella copertina del disco, visto che ti vediamo correre seminudo su un cavalcavia spingendo un carrello della spesa? Fortuna che ci sono i morbidi cuscini!
Esatto! Volevamo tirare fuori dalla copertina il tema dello schianto, dello sfracellarsi al suolo, diciamo. È stato davvero divertente da fare: sembrava di stare in uno di quei programmi americani stile Candid Camera in cui le macchine invece di suonarmi e insultarmi si accostavano per farmi i video o morire dal ridere.
A livello di sound, il disco mi piace perché si sente che c’è una visione sonora che collega tutti i brani, ma poi ogni canzone sviluppa un po’ sonorità differenti che esplorano buona parte dell’ambito rock e pop. Ti eri ripromesso a inizio scrittura di ottenere quest’effetto o è una cosa che è venuta via via col tempo?
Avendolo scritto in tanto tempo non è che mi fossi ripromesso molto. Ho cambiato ispirazioni e idee nel tempo, scartando ovviamente una decina di brani. La varietà di generi deriva sicuramente dai tempi disparati con cui l’ho scritto, ma anche dai miei tanti ascolti e dal mio essere ogni tanto un po’ sborone. Però sono contento che ti piaccia.
Se dovessi scegliere una delle 9+1 tracce che rappresenti al meglio la sintesi di ciò che è il disco, che traccia sarebbe e perché? Qual è al contrario la “chicca nascosta”, quella traccia che magari non fa da singolo ma che tu hai particolarmente a cuore?
Non so, credo Mica male. Diciamo che è stato un po’ il brano pivot per quanto riguarda la scrittura dei miei brani, il primo con cui ho capito il tipo di pop che volevo fare e continuare a scrivere, ma con quel crescendo finale psichedelico e gli uccellini fuori dal mio terrazzo sulla coda. Sì, credo Mica male riassuma bene un po’ tutto quello che c’è in questo disco. Per quanto riguarda la “chicca nascosta” davvero non saprei, magari ti dico In mutande, che è l’ultimo brano, quello più pesante. E invece poi tra un mese quando il disco sarà in giro tutti mi diranno “Ammazza, ma che bomba è In mutande, Moci!”
Diciamo che secondo me Coralli ha un fascino e un’atmosfera che non siamo riusciti a tirare fuori con gli altri brani; è di quei pezzi che quando mi capita di ascoltarli quasi mi faccio i complimenti da solo, non perché sia particolarmente eccelsa, più per come siamo riusciti a rappresentare tutto quello che volevo comunicare nel testo attraverso suoni e scelte di produzione.
Quali sono i tuoi riferimenti musicali nel panorama italiano e in quello internazionale?
Generalmente i Beatles sopra tutti. Per quanto riguarda la scena attuale in Italia ti direi i Verdena se si possono definire attuali, idem i Cani e Giovanni Truppi. All’estero Mac DeMarco, i Peach Pit, gli Unknown Mortal Orchestra, King Krule e gli Idles.
Sulla tua romanità insistono buona parte dei materiali che si trovano a tuo proposito in giro per la rete. Che rapporto hai con la scena musicale della città?
Lavoro al Pierrot le Fou, uno di quei locali che ha scritto la storia della scena musicale più recente di questa città. Negli ultimi due anni ho fatto il soundcheck e seguito il live di più o meno chiunque iniziasse come me a far musica in questa città. Con molte persone ho legato e ci siamo trovati su molte cose, con altre meno. Sicuramente mi sento parte di qualcosa di grande e ne sono felice.
Nel disco ci parli degli ultimi tre anni della tua esistenza, e ci possiamo fare un’idea di alcune delle esperienze che hai vissuto. Tu però che cosa diresti di avere imparato in questi tre anni rispetto alla persona che eri nel 2017?
Ho imparato a cantare meglio, a odiarmi di meno, a essere più sincero con gli altri, a essere più sincero con me stesso, a produrre la mia musica da zero, a dire di no alle persone, a non pensare di dover smettere di mangiare per non sentirmi ripudiante, a fare il fonico, a montare i video, a volere più bene ai miei amici, a terminare amicizie e rapporti tossici, a rispettare le mie canzoni, ad aiutare mio fratello a fare i compiti, a giocare a Fortnite, a baciare senza mettere troppa saliva, credo, a non prendermi una birra dopo il vino e l’amaro, a distinguere i logorroici dai chiacchieroni, la rabbia dalla forza e l’essere insicuri dall’essere semplicemente una testa di cazzo.
Al di là della musica, come passa una giornata-tipo Moci oggi come oggi (fatti salvi i vari lockdown) e come la passava il Moci di tre anni fa?
Fino a prima del lockdown non stavo fermo un attimo: uscivo di casa alle 11 e tornavo a malapena per cena, tra lavoro, università, studio, prove e concerti. Ora ho ritrovato un po’ di miei spazi, dedico tanto tempo a me stesso e all’automiglioramento. Mi sveglio a un orario decente, mangio caffelatte e Digestive, mi piazzo al PC tra Ableton, Fortnite e Spotify e lavoro fino a sera. Poi ceno con mamma e la sera esco, o per lavorare al Pierrot o per stare con le persone che amo.
Hai qualche consiglio per gli ascolti da fornire ai nostri lettori?
A chi dice che l’indie è pop normale solo che parla di città e cose da mangiare (tra l’altro ‘sta cosa ha smesso di far ridere a inizio 2016, ripijateve) dico di ascoltare l’indie che esce all’estero, non quello che vi propina la radio miliardaria di turno o il trend di TikTok. A chi dice che il rock è morto dico di smettere di cercarlo su Italia 1 o Virgin Radio e magari ricordandovi che in teoria il rock dovrebbe essere una musica di rottura, quindi se volete scoprirne di nuovo dovete impegnarvi, non dovete aspettarvi di trovare il futuro dietro l’angolo se state sempre a rivangare sulla bravura di Slash o su quanto spacchino tutto i Pearl Jam. Ci sono tantissimi gruppi rock nuovi e bellissimi come Idles, Unknown Mortal Orchestra, King Gizzard & the Lizard Wizard e i Black Midi, non i Greta Van Fleet.
A chi dice che la musica è morta dico “bravi, allora cambiate sport”.
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