
REVIEW: No Good Left to Give by Movements
di Vittoria Brandoni
C’è un luogo immaginario all’intersezione tra post-hardcore, indie ed emo, dove molte band alternative hanno saputo costruire una dimora confortevole. O addirittura creare un vero e proprio impero, nel caso di gruppi iconici come Tigers Jaw e Balance and Composure.
Anche se i titani del genere lo fanno sembrare facile, quasi matematico (prendi un testo intimo e crudo, scrivi un bridge spoken word che culmina in un enorme climax risolutivo e affoga il tutto in una bella smarmellata di riverbero), la realtà è che non esistono scorciatoie per trovare la direzione vincente. E se alcuni impiegano anni a consolidare le fondamenta di un sound che sia proprio, unico, e non solamente un’eco sorda di tutto ciò che è già stato detto e suonato negli ultimi 15 anni, altri non vedranno mai quel giorno arrivare. Forse è per questo che sentiamo così spesso parlare di band promettenti che “si sono perse”, o del “sophomore slump”, termine usato per descrivere un secondo album che non riesce a replicare o superare le aspettative poste dal primo successo.
Più raramente, quando i pianeti si allineano, succede quello che è successo ai Movements: inseriti nel roster di Fearless Records dopo un’incredibile performance, il quartetto di Orange County ha saputo trovare la sua strada in soli due anni.
Iniziando con l’EP del 2016 Outgrown Things i Movements sono riusciti a mettere d’accordo le tanto adiacenti quanto spesso antagonistiche scene pop punk, hardcore ed emo. Ma la vera magia è avvenuta l’anno successivo, quando il debutto full-length ha mantenuto la promessa del suo titolo, Feel Something, facendo provare qualcosa ad un pubblico immensamente più vasto (l’album vanta 40 milioni di stream).
Ma il secondo lavoro in studio No Good Left to Give ci suggerisce che il loro successo non sia stato dovuto a nessuna congiunzione astrale. A rendere il sentiero dei Movements così ben delineato è la presenza di una missione e la nitidezza del messaggio che traspare in ogni brano. Il filo conduttore di una carriera così solida è la coraggiosa scelta di parlare di problemi reali in modo realistico. No Good Left to Give affronta le tortuosità ed i lati più complicati della salute mentale -depressione, dipendenza e suicidio- senza delegare il compito ai luoghi comuni che da sempre sminuiscono l’entità di queste dinamiche.
Il disco suona più cupo, più urgente e più grandioso del suo predecessore non solo nelle tematiche ma anche nel sound, grazie all’ormai inconfondibile (e a volte polarizzante) tocco del produttore Will Yip (Title Fight, La Dispute). La band afferma di non aver provato ad emulare nessuno nel processo di scrittura, ma che l’ispirazione per la musica sia di natura emotiva. “Si parla di non mollare quando il mondo può offrirti molto di più”, spiega il frontman Patrick Miranda riguardo il singolo di punta Don’t Give Up Your Ghost. “Anche se ora ti trovi in un determinato luogo, questo non significa che ti troverai lì per sempre.” Questa è, nella sua più intima essenza, la musica dei Movements.
Dopo anni di esposizione a generi musicali dove negatività e pessimismo appaiono spesso performativi, o forzatamente condivisibili da più persone possibile, un’audience ormai desensibilizzata ha l’occasione di riscoprire il piacere della vulnerabilità artistica, della catarsi della creatività, e della speranza a cui l’arte ci fornisce appiglio.
Valutazione: 5/5
Tracklist:
1. In My Blood
2. Skin To Skin
3. Don’t Give Up Your Ghost
4. Tunnel Vision
5. Garden Eyes
6. 12 Weeks
7. Living Apology
8. Santiago Peak
9. Seneca
10. Moonlight Lines
11. No Good Left To Give
12. Love Took The Last Of It
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