Vintage Violence band

Il segreto per parlare a chi ha vent’anni meno di te / Intervista ai Vintage Violence

Lo scorso novembre, in un Legend Club pieno come non si vedeva dai tempi in cui il covid-19 non esisteva, i Vintage Violence hanno celebrato l’uscita del loro nuovo album Mono. A marzo e aprile hanno replicato sempre a Milano con due concerti al Rock’n’Roll, il primo dei quali ha fatto segnare un clamoroso sold out.

Il nuovo disco arriva a sette anni di distanza dal precedente Senza paura delle rovine, e si può capire che l’attesa tra i fan del gruppo lecchese fosse parecchio alta -come abbiamo potuto constatare di persona a questi concerti. Mescolando punk rock, alternative rock con tendenze indie all’italiana e parecchia politica e filosofia nei testi (qualcuno li ha definiti “una via di mezzo tra De André e i Nofx”), questi quattro ragazzi quatti quatti hanno doppiato da poco la boa dei vent’anni di carriera.

In mezzo al pubblico si vedono quarantenni ex-“soldati della scena” calati a Milano per l’occasione, un denso nugolo di trentenni ancora abbastanza pimpanti da lanciarsi nel pogo, ma pure una sorprendente schiera di ventenni e freschi post-adolescenti che magari non ti attenderesti al concerto di una band underground in giro da quattro lustri, segno che i Vintage Violence hanno quel raro dono di suonare attuali e importanti anche nelle menti di chi proviene da una generazione completamente diversa dalla loro.

E quando la band attacca con le prime note di Piccolo tramonto interiore, in fondo capiamo perché il punk rock non finirà mai di portare le persone ai concerti. Nel backstage del RnR intasato dal fumo, Rocco, chitarrista del gruppo e autore dei testi, ci ha accolti per presentare la nuova creazione della band.

Stasera abbiamo visto non solo tantissime persone, ma soprattutto tante persone di tante età diverse. Quale pensate sia il vostro “segreto” per riuscire a parlare anche a chi ha vent’anni meno di voi?

Una caratteristica dei nostri testi che ci permette magari di “arrivare” a prescindere è che si allargano spesso all’uomo in quanto tale come destinatario, pur partendo da immagini personali e connotate biograficamente. Ci piace l’idea che il nostro messaggio trascenda gli accadimenti momentanei e sia il più possibile universale. L’ultima cosa che ci vedrete fare è il singolo che cerca di sfruttare l’onda del trending topic di turno.

La frase fatta vuole che ormai da una quarantina d’anni il punk sia morto, ma poi a ogni concerto è evidente che questo genere resta sempre più vivo che mai. Cos’è che gli permette di fare così tanta presa sulle persone, soprattutto dal vivo?

Un concerto punk è una delle esperienze più intense che si possano fare nella vita. È qualcosa di più di un concerto. E a differenza del bungee jumping, l’esperienza è collettiva.

Di punk ce n’è parecchio sul vostro nuovo album Mono, ma è un punk che si lascia molto influenzare dall’alternative rock, dall’indie e forse anche dal cantautorato italiano. Qual è il background musicale da cui venite e quale tipo di sound avete ricercato durante la scrittura del disco?

Come diciamo spesso siamo partiti da grandi amori adolescenziali: Iggy Pop, David Bowie, Lou Reed, The Doors, Sex Pistols, The Clash, Joy Division, Nick Cave, Nirvana… ma a inizio millennio la doppietta Is This It dei The Strokes e Turn On the Bright Lights degli Interpol ci ha svegliati da una sorta di torpore vintage, permettendoci di immaginare un futuro con il rock dentro. Rispetto a Mono, ci dicono in tanti che abbiamo uno stile difficilmente codificabile, che è semplicemente il nostro, e per noi è un bellissimo complimento. A livello di sound vale lo stesso discorso.

Anche la politica è da sempre un cavallo di battaglia dei vostri testi, ed è così anche in Mono, anche se su questo disco si avverte soprattutto l’influenza di tante letture filosofiche. È così? Quali riflessioni e meditazioni stanno dietro alla composizione dei testi di Mono? Mi ha colpito in particolare la presenza di una sorta di riflessione costante sul tema della morte e di cosa viene -e avviene- dopo, come in Have a Nietzsche Day o in Zoloft.

Sì, è così: abbiamo spostato un po’ il focus dall’analisi politica a quella filosofica. È soprattutto la produzione nietzschiana che ha ispirato il punto di vista di Mono: lo stesso titolo e la copertina raccontano quest’ampliamento della visione dall’individuo alla specie, dall’ontogenesi alla filogenesi, che è esattamente ciò che fa di Nietzsche il filosofo che più di tutti si è avvicinato alla natura umana, paradossalmente allontanandosene, guardandola da lontano, nella pluralità delle sue manifestazioni fuori dalla cattività sociale. Nietzsche ha guardato all’uomo attraverso l’animale e l’eremita; Freud attraverso il bambino e il folle. In Mono si trovano tutte queste manifestazioni che vengono poi presentate come in lotta costante con l’uomo adulto civilizzato, rappresentato da Dio, come qualcosa da superare.

Nel video di Astronauta avete invece spedito una copia del disco nello spazio. Cosa volevate comunicare con questo video e con questa canzone?

Volevamo rappresentare simbolicamente la pulsione creativa della nostra specie, la tendenza innata a comunicare a prescindere dall’esistenza di un ascoltatore reale, di uno starman waiting in the sky o di una divinità che ha a cuore i nostri destini.

Cosa vi spinge ad andare avanti a suonare e fare musica anche in un contesto complicatissimo come quello attuale?

La risposta a questa domanda è il prosieguo naturale della precedente: per un’urgenza espressiva innata e incontrollabile, la stessa che probabilmente accomuna tutte le produzioni creative. Faremmo musica anche se non ci fosse nessuno ad ascoltarla. Semplicemente, dobbiamo.


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