
Federico Pagani: dopo An Harbor mi sono riavvicinato alla musica in un modo del tutto nuovo
Un album, May, pubblicato con lo pseudonimo An Harbor nel 2016 sull’onda della partecipazione a X Factor, seguito da vari tour ma senza raggiungere il successo che un disco di quella qualità avrebbe meritato. E così Federico Pagani ha deciso di mettere in pausa il progetto An Harbor, e dopo un periodo di riflessione si ripresenta sulle scene utilizzando semplicemente il proprio nome di battesimo. Per sempre è il suo primo singolo, e a fronte di qualche elemento di continuità col passato (in particolare voce e abilità di scrivere canzoni incisive già dopo pochi ascolti), ci presenta un artista molto rinnovato. Federico ora canta in italiano e con la sua musica va un po’ dove vuole, incorporando elementi da diversi generi per esprimere con tutta libertà il proprio estro creativo e le proprie emozioni e riflessioni. Che come ci racconta nell’intervista qui di seguito, vengono da molto lontano.
Qualche tempo fa Beppe di This Is Core, etichetta su cui era uscito May, ha ripostato su Facebook il tuo disco come An Harbor, commentando che l’album era stato snobbato dai grandi media italiani (soprattutto le radio) perché cantato in inglese. Credi che la barriera linguistica abbia effettivamente danneggiato il disco in questo senso o ci siano stati altri fattori?
Ciao a tutti e grazie mille per lo spazio: non è mai scontato. Penso che il progetto An Harbor sia stato sfortunato per diversi motivi. Sicuramente l’inglese è stato un ostacolo; in quel periodo però mi veniva di scrivere così, in modo naturale, ed ero convinto si potesse fare. Credevo in un’imminente internazionalizzazione della musica italiana. Purtroppo nello stesso periodo è scoppiato il fenomeno “it-pop” ed è diventato il nuovo mainstream. Ma un altro problema di May col senno di poi era che fosse troppo trasversale: non era abbastanza indie né mainstream, né troppo rock, né troppo pop, né troppo electro, né troppo folk. Avevo messo un sacco di cose diverse perché concretamente mi piacciono tante cose diverse e credevo che questo eclettismo fosse un punto di forza, invece si è dimostrato un problema: gli ascoltatori, gli addetti ai lavori erano sempre un po’ spiazzati; non si sapeva dove collocarlo.
E infine la mancanza di una struttura a supporto di ciò che stavo facendo, soprattutto alla luce del boom post X-Factor, che era stato non voluto e casuale ma che a quel punto andava mantenuto. Ringrazio ancora This Is Core perché in quel momento è stata l’unica a credere nel progetto. Non nascondo che avvertivo (e avverto) una certa diffidenza da parte della maggioranza degli addetti ai lavori e di molti miei colleghi musicisti. Era straniante perché vedevo che le canzoni piacevano alle persone ma di contro non c’era modo che qualcuno mi prendesse sul serio e mi aiutasse a portarle in alto, portarle alle persone. Probabilmente nemmeno vivere e operare dal mio piccolo angolino nella provincia emiliana ha aiutato. In ogni caso ho sempre fatto tutto col cuore e con assoluta sincerità, quindi non ho rimpianti. Vado ancora fiero di quel disco e di quel periodo, nonostante tutto.
Hai per il momento messo da parte il progetto An Harbor e sei ripartito con un progetto che ha semplicemente il tuo nome. È una scelta che indica quanto sia personale la nuova direzione e rappresentativa di te stesso come persona, o avevi pensato ad altri potenziali nomi d’arte prima di decidere per una “scelta anagrafica”?
Dopo l’uscita di May il mio entusiasmo verso An Harbor è andato pian piano spegnendosi. Ci avevo investito troppe energie e aspettative, e quando ci si è accorti che il disco non stava andando come sperato ho sentito che la cosa più giusta da fare era fermarsi un attimo e raccogliere le idee: dopo quasi tre anni di tour ne avevo bisogno; forse avevo esagerato anche in quel senso. Insistere a tutti i costi su una situazione che non funziona non è mai stato nelle mie corde. A volte bisogna avere la lucidità di guardarsi allo specchio e dire “ok, non è andata come immaginavi, adesso fermati e fai mente locale”.
Nel frattempo la mia vita è cambiata parecchio. Ho quasi smesso di scrivere canzoni, pensavo ad altro. Poi tra la fine del 2018 e l’inizio del 2019 ho vissuto un periodo parecchio brutto a causa di alcuni problemi personali che mi ha portato ad azzerare tutto e rivedere l’importanza di ogni cosa, le vere priorità della vita. E mi sono riavvicinato alla musica ma in un modo completamente diverso, ripartendo da un bisogno vero. Senza pensare più a niente mi sono lasciato guidare dall’istinto. Sono nate quindi queste nuove cose: quando mi sono accorto che iniziavo ad avere diversi pezzi finiti ho realizzato che sarebbe stato stupido tenerli ancora in un cassetto, e ho capito che l’unica modalità possibile per pubblicarli era semplicemente con il mio nome. Posso fare le cose più diverse, ma rimango sempre io, Federico Pagani. Mi fa sentire molto più libero.
Non capisco questa paura che c’è oggi di usare il proprio nome di battesimo. Tutti alla ricerca dello pseudonimo, del nomignolo catchy e smart, dell’identità misteriosa ma non troppo. Lucio Dalla, Lucio Battisti, Ivano Fossati erano semplicemente loro stessi e direi che non avevano bisogno di altro. Non penso neanche lontanamente di mettermi al loro livello; io non sono niente, ma al di là delle mode e delle varie tendenze del momento, penso solo che se sei onesto con te stesso non dovresti avere problemi a usare il tuo nome. Che è una cosa che sembra banale ma non lo è, ed è sempre più rara oggi.
Hai detto di aver scritto Per sempre e le altre nuove canzoni “nutrendomi di dubbi atavici e gettando al vento certezze assolute”. Ti va di soffermarti a elaborare quest’affermazione che mi sembra molto importante per la tua nuova direzione?
Ho avuto un periodo in cui ho smesso completamente di suonare per me stesso. Continuavo ad avere altri vari progetti e band, ma non riuscivo più a esprimermi nel modo giusto sulle mie cose. Avrò prodotto materiale per almeno due dischi che ho scritto e buttato via. Non ne venivo a capo. Ero sempre preso da altre cose, non veniva più in modo naturale. Poi appunto una serie di vicende parecchio spiacevoli mi ha costretto a mettere un punto e a capo. Spesso ero obbligato in casa, ma non riuscivo nemmeno ad avvicinarmi alla chitarra, avevo quasi un rifiuto.
E allora per caso ho installato Ableton Live per ingannare il tempo. Mentre imparavo a usarlo ho iniziato a giocare con sample vari, campionando di tutto, tagliando e cucendo frammenti di cose diversissime, suonandoci sopra, costruendogli accanto dei beat, e senza nemmeno accorgermene avevo dei pezzi. A quel punto ho provato anche a cantare qualche parola che avevo scritto e magicamente non avere più il vincolo della chitarra, per come ero abituato a suonarla (l’unico modo che conosco), mi ha liberato di un ostacolo che non mi ero mai accorto di avere e così sono nate le canzoni, esattamente come le sentirete. La cosa incredibile per me è proprio che i pezzi nascevano direttamente mentre scoprivo come fare certe cose da zero. È stato come imparare di nuovo a camminare.
Questo nuovo modo di scrivere e produrre mi ha assorbito tantissimo nel giro di pochissimo tempo, mi ha aperto un milione di nuove strade e al momento sono in un flusso creativo continuo, anche perché più scrivo, più divento consapevole di questi nuovi mezzi. Al momento mi stanno permettendo di esprimermi in modo diretto, senza preconcetti ed elucubrazioni forzate, a differenza della scrittura classica voce e chitarra che ormai era diventata un esercizio, un’equazione che non ero più in grado di risolvere.
In Per sempre ci sono alcuni elementi comuni alle tue precedenti canzoni come lo stile vocale, ma anche alcune caratteristiche particolari. A parte l’uso dell’italiano, ad esempio, mi ha incuriosito l’incorporazione di elementi quasi jazzistici con il background di effetti sonori orientaleggianti. Cosa ricercavi quando hai scritto la canzone? Come hai deciso quale sound perseguire e quali elementi incorporare?
La verità è che non ho scelto un sound. Per sempre suona così, ma gli altri che usciranno saranno diversi. È il problema che aveva May, ma portato agli estremi, e mi viene da ridere. Non avendo più aspettative o pretese non ho più problemi a saltare da una parte all’altra a seconda di come funzionano al momento le mie sensazioni. Mi piacciono tantissime cose e quindi ho campionato e lavorato con molte cose diverse, dal jazz alla musica tribale dell’Amazzonia, dal soft rock fine ’70 alla classica. Detto così sembra assurdo e forse lo è, ma mi dà un senso di libertà che non ho mai avuto.
Ora sono semplicemente io e penso che se un giorno vorrò fare un disco hardcore punk lo farò; se un altro mi verrà di fare dei pezzi techno li farò. L’importante è che rimanga l’urgenza, la necessità espressiva vera, altra cosa che oggi mi sembra essere quasi sparita. La musica va fatta perché non si può farne a meno, non pensando di creare un prodotto da immettere sul mercato. Le canzoni non sono una lattina di Coca-Cola o uno smartphone: nascono da una magia inesplicabile e questa magia va rispettata e preservata. Nel caso specifico di Per sempre sicuramente vengono fuori influenze di certe scuole filosofiche dell’estremo oriente a cui mi sono avvicinato nell’ultimo anno e di conseguenza certo jazz spirituale degli anni ’60 come quello di Coltrane, sua moglie Alice, Pharoah Sanders…
La copertina di Per sempre è una foto di tre uccelli che volano, con due persone che fanno capolino in basso, una delle quali tende il braccio verso di loro (forse tentando di dargli qualcosa da mangiare?). Dove hai recuperato l’immagine e che significato ha avuto per te, da portarti a sceglierla come copertina?
Parte tutto dal fatto che sono parecchio nerd e perdo ore a cercare foto, illustrazioni, immagini strane su Archive o in gallerie creative commons free. Cerco senza un obiettivo preciso e mi lascio ispirare da quello che trovo. Per quanto riguarda la copertina di Per sempre è stato esattamente così. Un paio di giorni prima di caricare il pezzo online ho trovato questa foto in bianco e nero e ho capito che era quella giusta.
La purezza del bambino davanti ai gabbiani in volo e la semplicità del gesto nel cercare di dargli da mangiare mi sembra molto evocativa e perfetta per descrivere quello che avevo in mente, cioè che è necessario riscoprire la purezza del rapporto col mondo in cui viviamo, ritornare a rispettarlo e riscoprire l’importanza dell’attimo presente, che è sacro, soprattutto nelle cose più piccole e semplici, come appunto stupirsi davanti a uno stormo di gabbiani. In fondo Per sempre è una canzone ecologista a modo suo, come altre che ho scritto in questi mesi.
Con quei baffi, esteriormente sei senz’altro parecchio riconoscibile, e dall’immagine del tuo profilo, il video del brano e i post/immagini che hai pubblicato finora mi sembra che ci sia una certa cura dell’aspetto estetico di questo tuo nuovo progetto. Che tipo di sensazioni visive stai cercando di trasmettere? È una scelta pensata e strutturata o sono state le immagini a venirti incontro?
Sono contento che questo aspetto emerga. Sicuramente c’è la ricerca di una visione d’insieme riconoscibile. Ho sempre cercato di fare attenzione a tutto l’aspetto visuale legato alla musica e oggi forse ancora di più. Al momento mi sto occupando direttamente io di ogni cosa, quindi il risultato è per forza molto DIY, volendo anche un po’ punk. Al di là del baffo, che non è certo una scelta fatta con consapevolezza, tutto è risultato di scelte ponderate, anche se istintive.
L’idea di base era creare un immaginario che si legasse direttamente ai contenuti dei pezzi e che in qualche modo li elevasse, che ne rendesse più profonda la fruizione. Parte tutto dalla mia curiosità nello scovare elementi visivi e grafici atipici che mi colpiscano. Metto insieme varie cose, secondo un processo molto naturale che banalmente funziona per tentativi, fino a quando non sono arrivato al punto in cui mi dico “ok, questa è la soluzione giusta”.
Dopo Per sempre cosa ci attendiamo da te i questo 2020? Altre nuove canzoni, magari un po’ di date in giro per l’Italia, oppure hai deciso di prendere le cose così come verranno?
Indubbiamente prendo le cose così come verranno, anche nella vita. Non ho più pretese di nessun tipo. Quello che faccio lo sto facendo davvero per un bisogno personale. Dal mio angolino di mondo, con le cose che faccio, non credo di poter nemmeno competere col resto della musica italiana di oggi. Però di certo nei prossimi mesi usciranno altri pezzi che ho già pronti e nel frattempo vorrei finire di lavorare ad altri che ho scritto e continuo a scrivere. Ma tutto è aperto a ogni possibilità. Finché funziona non vorrei interrompere questo momento creativo molto positivo. Per i concerti invece è ancora presto: non ci ho proprio ancora pensato, ma chissà che quest’anno riesca anche a ritornare in giro per l’Italia. Ovviamente mi piacerebbe moltissimo. Alla fine la condivisione durante i live è ciò che dà il vero senso profondo a questa cosa della musica.
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